Dentro la palla dorata del Verrocchio

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Certo, come racconta nel video che segue il coordinatore della manutenzione dell’Opera del Duomo, anche se non è più da secoli quella palla di rame dorato realizzata per mano e ingegno  di Andrea del Verrocchio, salire sul “tetto di Firenze” deve essere sicuramente emozionante, sia per il panorama incomparabile che per la notevole responsabilità.

Ad Andrea del Verrocchio, capomastro dei lavori alcuni anni dopo la morte di Filippo Brunelleschi e massimo esponente del secondo ‘400 fiorentino,  fu commissionato nel 1468  il grande globo sormontato dalla croce. Collocarlo sulla sommità della cupola, o meglio della “lanterna” brunelleschiana, non fu un’impresa scontata. E come riportato da Alessandro Vezzosi, rimase ben in mente al giovane apprendista Leonardo. «Ricordati delle saldature con che si saldò la palla di Santa Maria del Fiore. Di rame improntato in sasso come li triangoli d’essa palla»: con questa annotazione del Ms. G (f. 84v), databile verso il 1515, Leonardo rievocava un’esperienza tecnologica giovanile, compiuta a fianco del Verrocchio il 27 maggio 1472.

Ma la sfera di rame, e anzi la croce che la sovrasta era necessariamente destinata ad attirare i fulmini.  E infatti si hanno notizie di vari disastri, riportati dai diversi cronisti.

Quello forse più suggestivo si verificò il 5 aprile del 1492, tre giorni prima della morte di Lorenzo il Magnifico e quando in città già aleggiava l’eco di imminenti sventure predicate da Savonarola. Il popolo fiorentino interpretò la tempesta della notte e i danni subiti dal Duomo come l’annuncio dell’altra sciagura incombente, la scomparsa appunto del Magnifico.

Tuttavia, l’evento ancor più disastroso per l’opera di Verrocchio doveva ancora avvenire.  A un secolo di distanza, nella notte tra il 26 e il 27 gennaio del 1601, un altro temporale fece cadere  l’intera sfera di bronzo del peso di 18 quintali, che rotolò in basso per tutta l’altezza del Duomo e andò a schiantarsi definitivamente sul lato est della piazza. Dietro l’abside, un semplice disco di marmo bianco, ben riconoscibile sullo sfondo del selciato grigio, segna ancora oggi il punto della rovinosa caduta.

Lo schianto e la distruzione, com’è facilmente prevedibile, provocarono grande turbamento nella popolazione. Al punto che l’allora Granduca di Toscana Ferdinando II de’ Medici sollecitò con la massima urgenza i lavori necessari, invitando i responsabili dell’Opera del Duomo a convocare i migliori artisti e architetti. Come si legge nella storia della bottega di doratori Giusto Manetti Battiloro – a distanza di secoli tuttora attiva a Firenze – Matteo d’Agostino Manetti, che stava lavorando alla cupola di Michelangelo a Roma viene richiamato in città per ricevere l’incarico del restauro: “È un lavoro di straordinaria difficoltà, reso ancora più pericoloso dai rischi comportati dal sistema di doratura dei metalli in uso all’epoca, che prevedeva l’esposizione ai fumi del mercurio. Ma il 18 settembre 1602, a un solo mese dall’avvio, l’opera è conclusa. Il 21 ottobre dello stesso anno la palla viene ricollocata sulla cupola e l’Opera di Santa Maria del Fiore e i delegati del Granduca di Toscana rendono omaggio alla perizia e al coraggio di Matteo Manetti nominandolo Orefice dell’Opera, responsabile di qualsiasi restauro legato a ‘argenterie et orerie, vasi et reliquieri’ del Duomo”.

Almeno fino a qualche tempo dopo l’invenzione del parafulmine, la palla subirà altri incidenti, anche se meno gravi. E infatti è arrivata ai giorni nostri, conservando comunque il nome di “Palla del Verrocchio“, anche se è l’opera di Matteo Manetti e se, a differenza della prima versione quattrocentesca, presenta una botola creata – pare – su suggerimento di Bernardo Buontalenti proprio allo scopo di fare quello che i tecnici dell’Opera del Duomo continuano a fare periodicamente: ispezionarne lo stato di conservazione e insieme, perché no, godersi un panorama magnifico da un punto di osservazione davvero unico ed esclusivo.