Dante a Campaldino
11 giugno 1289: il giorno di San Barnaba
In seguito alla vittoria conseguita sui ghibellini a Colle di Valdelsa (1269) il governo guelfo di Firenze riprendeva il disegno di egemonia sull’intera regione interrotto più di venti anni prima con la sconfitta subita sul campo di Montaperti (1260):la minaccia per il guelfismo in Toscana era rappresentata ora da Arezzo che si poneva quale centro di raccordo di un’area ghibellina estesa fra Romagna, Appennino toscano e Montefeltro. Nel 1289, dopo un alternarsi di spedizioni durato un paio d’anni, Firenze colse l’occasione di un sostegno militare angioino per condurre una nuova campagna contro la città nemica: lo scontro fra le forze guelfe capeggiate da Firenze e quelle ghibelline con alla testa il vescovo di Arezzo Guglielmino degli Ubertini si svolse nella piana, detta di Campaldino, fra Pratovecchio e Poppi, nei pressi del piccolo convento francescano di Certomondo. La battaglia, iniziata la mattina di sabato 11 giugno, giorno di San Barnaba, si risolse con la vittoria schiacciante dei guelfi fiorentini i quali, coadiuvati dalle truppe di altre città guelfe toscane (Pistoia, Lucca, Siena), dei centri minori, di signori alleati e dal contingente di cavalieri francesi, misero in campo un esercito che numericamente contava quasi il doppio delle forze raccolte dai ghibellini aretini.
La battaglia di Campaldino, tuttavia, non presentò di per sé caratteristiche, novità tattiche o tecniche tali da meritare di entrare negli annali militari e, nonostante abbia sancito la definitiva supremazia guelfa in Toscana, non stravolse completamente gli equilibri politici della regione. Perché, quindi, la si ricorda con tanta enfasi?
La fama di cui gode è legata soprattutto ad una notizia: quella secondo la quale tra i feditori guelfi avrebbe preso parte allo scontro un personaggio d’eccezione, Dante Alighieri.
Ma questa notizia a quando risale? E, soprattutto, quale credito e attenzione è lecito prestarle?
Leonardo Bruni e Biondo Flavio
A onor del vero nessuno dei primi biografi di Dante sembra essere al corrente della sua presenza alla battaglia combattuta in Casentino: la prima menzione risale infatti al Quattrocento, riportata in maniera esplicita prima da Leonardo Bruni e, poco dopo, da Biondo Flavio. Detto questo molti potrebbero obiettare come quella dei due umanisti sia una testimonianza troppo tardiva per risultare credibile: eppure, come studi recenti hanno dimostrato, le affermazioni dei due eruditi sembrano avere solide basi.
Il Bruni, come lui stesso afferma, traeva la notizia da alcune lettere di Dante, oggi perdute, “di sua mano propria scritte”: qui, parlando del bimestre in cui ebbe a ricoprire la carica di priore, Dante affermava come “dieci anni erano già passati dopo la battaglia di Campaldino, nella quale la parte ghibellina fu quasi al tutto morta e disfatta; dove mi trovai non fanciullo nell’armi, dove ebbi temenza molta, e nella fine allegrezza grandissima per li varii casi di quella battaglia“; Biondo Flavio, per parte sua, dichiara di rifarsi per il racconto di Campaldino a una relazione di Dante in cui il poeta stesso esaltava la vittoria di San Barnaba. A dare conferma e valore alle testimonianze quattrocentesche è tuttavia lo stesso Dante che nei primi sei versi del canto XXII dell’Inferno così scriveva:
Io vidi già cavalier muover campo,
e cominciare stormo e far lor mostra,
e talvolta partir per loro scampo;
corridor vidi per la terra vostra,
o Aretini, e vidi gir gualdane,
fedir torneamenti e correr giostra
Questo passaggio, che attesta l’esperienza visiva e vissuta da Dante del combattimento a cavallo, trova poi eco anche in alcuni versi dei canti XXIV (94-96) e XXXII (19-21) del Purgatorio.
Ma allora: perché mettere in dubbio la presenza di Dante a Campaldino?
Questione di mezzi
A Campaldino, come riferisce il Bruni, Dante combatté a cavallo “nella prima schiera” riportando “quel giorno gravissimo pericolo”: questa affermazione, convalidata dalle parole usate da Dante nelle sue epistole, trova riscontro nelle dinamiche – descritte dalle fonti dell’epoca – che sappiamo essere proprie di una battaglia: lo scontro era infatti sempre combattuto impegnando aliquote successive di cavalieri in modo tale che riserve fresche di uomini e cavalli potessero rimpiazzare quelli che, data la fatica nel sostenere lo scontro, perdevano rapidamente forze ed efficacia.
Del primo scaglione (la “prima schiera“) facevano parte i cavalieri indicati nel toscano dell’epoca quali feditori, termine che deriva da fedire, forma antica di ferire il cui significato originario è colpire o urtare: destinati a sostenere il primo e più violento urto della cavalleria nemica i feditori dovevano essere ben montati e bene armati, dotati quindi di mezzi e ricchezze tali da consentire loro di sostenere le ingenti spese atte a garantire per sé il migliore fra gli equipaggiamenti.
Il punto sul quale alcuni storici e dantisti mettono in dubbio la testimonianza del Bruni (e del Flavio) è proprio questo: la famiglia Alighieri sarebbe stata troppo povera per armare Dante in modo adeguato, pertanto la sua presenza a Campaldino tra i feditori a cavallo non può avere concreto fondamento.
In realtà, che la famiglia di Dante fosse all’epoca economicamente in crisi è un’affermazione gratuita, contraddetta in primo luogo dalle alte cariche che Dante ebbe a ricoprire in seno agli organi del governo fiorentino: negli anni immediatamente successivi la battaglia di Campaldino lo troviamo per ben due volte (1296, 1301) nel Consiglio dei Cento, istituito con lo scopo dichiarato di rappresentare quei cittadini che con le loro abbondanti ricchezze sostenevano gli oneri maggiori nelle spese.
Anche i prestiti cui Dante e il fratello Francesco ricorsero più volte negli ultimi anni del Duecento indicano ben altro rispetto a quello che si è voluto leggere come indizio di una condizione finanziaria difficile: nell’economia del tempo il denaro liquido scarseggiava e anche persone molto agiate potevano essere costrette a fare ricorso al prestito quando ne avevano bisogno con urgenza. Una urgenza che Dante non è escluso abbia dovuto fronteggiare nel momento in cui ebbe a ricoprire cariche alte e prestigiose ma anche, in taluni casi, intrinsecamente dispendiose: ricordiamo come per cinque anni Dante sia quasi ininterrottamente presente in uno o l’altro dei cinque Consigli che reggevano il governo della città fino a conseguire la carica più alta, il priorato.
L’analisi di questi come di altri dati documentari (relativi a possessi fondiari) restituisce un quadro dal quale emerge la discreta agiatezza di cui dovette godere il Sommo Poeta sbarazzando il campo dai dubbi di coloro che, ritenendolo privo dei mezzi necessari all’impresa, ne mettono in discussione la presenza a Campaldino tra i feditori a cavallo schierati dalla guelfa Firenze.
Credits
A. Barbero, Dante, Bari, Gius. Laterza & Figli, 2020; id., Dante a Campaldino, fra vecchi e nuovi fraintendimenti, in “Letture Classensi”, 48 (2020), pp. 45-58; S. Diacciati, Dante a Campaldino, in “Le tre corone”, 6 (2019), pp. 11-26; M.Bicchierai, Giugno 1269, 1289 e 1440: vittorie di primavera, in “Portale Storia di Firenze”, giugno 2012, http://www.storiadifirenze.org/?temadelmese=giugno-1269-1289-e-1440-vittoriedi-primavera; S.Diacciati, Popolani e magnati. Società e politica nella Firenze del Duecento, Spoleto, Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, 2011